Matteo Picciolini
Una sera, circa un anno fa, davanti a una birra, in un grigio bar di Milano,
un'amica ebbe il coraggio di farmi una semplice ma incisiva domanda.
Le stavo raccontando alcune cose che mi erano successe:
di quanto ero arrabbiato perché le cose più importanti della mia vita non andavano come volevo che andassero, e
di quanto questo mi ferisse.
Ero perso in mille pensieri, e accusavo di tutta la mia sofferenza dei volti precisi,
delle situazioni particolari che erano diventate totalizzanti.
In quel momento lei mi ha detto: Ma scusa, chi è Piccio?.
Mi ha fatto una domanda schietta, genuina, che mi ha fatto chiedere: Chi sono io?
Chi sono io veramente, senza tutti gli idoli di cui mi sono circondato?
Parafrasando Zero Calcare: La domanda mi ha devastato. In realtà, più che la domanda in sé,
mi ha spaventato il fatto che non avessi una risposta chiara.
Mi hanno terrorizzato le atroci banalità che avrei potuto dare come risposta: io sono quello che faccio:
l'università, lo studio e la fisica, che amo ma che spesso mi imprigionano,
i rapporti a cui tengo di più, che rischio di imbrigliare in un mio schema,
o, ancora peggio, tutte quelle cose inutili e spesso senza senso che faccio ogni giorno,
che ho paura che siano tutto ciò che mi definisca.
In questi mesi mi sono fatto accompagnare da questa domanda,
che nel tempo ha assunto una forma diversa:
Cosa rende me veramente me? Cosa c'entra quello che faccio con la persona che sono?
Cosa c'entrano con me lo studio e il lavoro, gli amici o i rapporti che ho?
C'è stato un momento in cui non riuscivo a trattenere questa domanda nei pensieri e
chiedevo agli amici: Cosa ti rende veramente te? Cosa rende Giacomo, Michela, Simone, ... veramente Giacomo, Michela, Simone...?
In questi dialoghi ho scoperto
quanto questa domanda fosse importante per ciascuno, quanto urgesse ad ognuno scoprire il proprio posto nel mondo e
quanto fosse grande il desiderio che tutto non si limitasse alla propria materia di studio o a dei rapporti affettivi.
Cercare una risposta in sincerità a questa domanda ha messo in evidenza una grande fatica
di questo tempo, che in me nasce dalla tendenza a rendere assoluto un particolare, un dettaglio,
in nome del valore che questo ha per me.
Se una cosa è bella, mi piace o in qualche modo mi corrisponde, allora è tutto.
È terribile, perché partendo da un sentimento positivo,
come il riconoscimento che c'è qualcosa al di fuori di me che parla di me, che ha a che fare con me e con la mia vocazione,
il risultato finale è che mi imprigiono dentro a quel dettaglio, che piano piano perde quel gusto tutto nuovo che prima aveva.
Qualche mese fa ho visto Barbie al cinema con degli amici.
Tralasciando le tematiche principali del film,
mi ha provocato questo dialogo tra Barbie e Ken, che si sviluppa nelle scene finali del film:
- Io non so chi sono senza di te.
- Tu sei Ken.
- Ma è Barbie e Ken, non esiste da solo Ken. Per questo sono stato creato. Io esisto soltanto nel calore del tuo sguardo, senza quello sono solo un biondo qualsiasi che non sa fare le ribaltate.
- Tu sei Ken. Può darsi che sia il momento di scoprire chi sia davvero Ken. [...]
Non sei la tua ragazza, non sei la tua casa, non sei la tua pelliccia. [...] Forse tutte le cose che pensavi che ti definissero non sono davvero te.
Spero di non star violando troppi copyright.
Che qualcuno mi abbia posto questa domanda è stata una grazia.
Negli ultimi mesi, cercare una risposta è stato prendersi la responsabilità
di fronte alla vita di riconoscere che non sono fatto solo
per fare e performare in A, B o C, ma sono fatto per quacosa di più grande,
che è più della somma di tutti i fattori.
Questo non significa che A, B e C non siano importanti, ma che, al contrario,
sono indicatori di chi sono io, anche se - e soprattutto perché - non mi esauriscono.
Lentamente, con il tempo, questa domanda ha assunto dei colori meno tetri e più speranzosi,
perché ho potuto seguire degli indizi che già avevo, le mie passioni, ma soprattutto perché ho
potuto seguire chi avevo il sospetto che, magari, mi conoscesse meglio di come mi conosco io.
Già questo, di per sé, è assurdo: chi mi può conoscere meglio di me? In fondo ho vissuto
tutta la vita con me stesso... Eppure io a quella domanda, Chi è Piccio?,
io non so rispodere. Qualche amico però, abbozza delle risposte, sia direttamente, sia indirettamente,
quando mi propone di studiare assieme un esame, di leggere un libro, fare qualcosa che a lui piace da impazzire o quando mi racconta di sé.
Questa modalità, di seguire non solo me, ma anche gli indizi che qualcun altro mi dà, è stata la possibilità
di vivere quella domanda con più serenità; perché è sicuramente vero che a tratti ho già scoperto chi sono,
ma molto altro di me ancora non lo so, ed è per questo che ho bisogno di verificare le ipotesi che mi dà qualcun altro. In
Si può vivere così c'è un passo dove Giussani spiega bene questa cosa: L'obbedienza è seguire se stessi alla luce della scoperta
di sé fatta seguendo i criteri di un altro.
Il grande passo che vedo che mi è rischiesto, è la verifica di quei criteri che, per grazia, mi sono dati,
perché altrimenti, come dice un mio caro amico, si sta solamente usando l'altro come totem per fuggire dalle proprie questioni.
È certamente un'impostazione scomoda, perché per ogni cosa, per ogni azione, c'è da chiedersi:
Questa cosa mi rende veramente me?,
ma estremamente conveniente, perché permette di imparare e ripartire sempre.
In questi mesi è stato bello aprirsi totalmente alle tante occasioni
che mi sono state donate per rispondere a questa domanda,
ed è stato ancora più bello trovare degli accenni di risposte, quando ho potuto dire finalmente:
Questa cosa è mia, io mi gioco qui, perchè mi è stata data e ne rispondo davanti a Dio e agli uomini. E questo non potrà mai togliermelo nessuno.