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Matteo Picciolini

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Tutto prima o poi fallisce. Ma allora perché ci muoviamo?

Testo di Matteo Picciolini, foto di Marco Leali, 23 Dicembre 2023

Due anni fa, in questo periodo, durante un direttivo CUSL, discutendo di alcune questioni circa i bilanci e l'acquisto libri per il nuovo semestre, un caro amico riportò queste parole: Caro Piccio, tutto prima o poi fallisce. La questione vera è: cosa rimane? Ricordo chiaramente la scena: io, seduto dietro il bancone, focalizzato sul particolare dell'acquisto libri - certamente importante, seppur minimo - mentre lui, su uno sgabello davanti alla porta di ingresso, con questa frase spalancava lo sguardo ben oltre il particolare su cui io ero ripiegato. Sono rimasto intontito, senza parole.
Tutto fallisce. Me lo ripetevo tra me e me per settimane dopo aver udito queste parole. Anche ora, davanti ad alcune cose che mi accadono, questo ricordo torna spesso alla mente.
Tutto fallisce. E allora perché non darsi per vinti fin da subito? Perché, se sappiamo già come finirà, mettere il cuore nelle cose, costruire fino all'ultimo, dare la vita per qualcosa?

Già solo in termini imprenditoriali, questa frase dice una grande verità, che nel mondo globalizzato di oggi, governato dai giganti aziendali, stentiamo a credere: un giorno, anche l'imbattibile Amazon, l'infallibile Google, il colosso Meta, ... avranno fine. Ma allora, veramente, perché sprecare la propria vita per qualcosa che ha segnata una data di scadenza?

Fin da subito, però, mi è stato chiaro che questa domanda non si limita semplicemente all'ambito aziendale, ma è una questione per la vita. È vera per le relazioni, gli amici, la ragazza o il ragazzo, la moglie o il marito; per il lavoro; per la famiglia, la mamma e il papà, i fratelli. Che follia donare sé stessi, dare tutto di sé per qualcosa che non ha il sapore dell'eterno. Lo dice bene Brunori Sas, quando canta in La Verità:

La verità
  è che ti fa paura
  l'idea di scomparire
  l'idea che tutto quello a cui ti aggrappi
  prima o poi dovrà finire



Qualche mese fa, un amico mi ha raccontato la storia dell'associazione che aveva fondato assieme ai compagni di università e che, dopo svariati anni di attività, per varie ragioni, hanno deciso di chiudere. La domanda che si sono posti, al momento della chiusura è stata questa: Chiudiamo perché è andata male o perché quest'opera è compiuta, cioè ha fatto quello che doveva fare? Mi stupisce perché questa domanda apre alla possibilità che, avendo chiaro lo scopo di ciò che si fa, non si è schiavi del risultato, e, in particolare, il fatto che tutto abbia una fine, impone che lo scopo di un'opera, di un gesto di carità o di un legame affettivo, non sia da ricercare nell'atto conclusivo, ma durante la costruzione di quella determinata opera, di quel gesto o di quella relazione.
Ne Il senso della caritativa, Luigi Giussani scrive: Finché non sapremo bene, con chiarezza e semplicità, il perché ultimo, lo scopo del nostro fare, fino allora non bisognerà mai stare quieti. Il nostro scopo è tirar fuori da quel che facciamo il senso, l’idea per la quale esclusivamente potremo riuscire a essere fedeli, quando non saremo più entusiasti o non provassimo più gusto.

Non è follia, allora, dare la vita per qualcosa che abbia uno scopo chiaro, magari tutto da scoprire nel cammino, ma che abbia a che fare con il mio compimento. Che bello poter dire di aver scoperto un pezzo di sé in quello che si sta facendo o nella relazione con qualcuno. E, ancora di più, attraverso questo, poter dire di scoprire sempre più il volto di Chi questa opporturnità me l'ha donata. E questo certamente ha il sapore dell'infinito (Gli immortali, Jovanotti).
In questo senso, anche amare è opera, dall'inizio alla fine, fino all'ultimo giorno. Fino all'ultimo giorno: è il modo di amare questa cosa del tutto, perché altrimenti, quando una cosa non corrisponde o non torna più, ci chiamiamo fuori. Invece, crederci e metterci tutto il cuore fino alla fine, fino al minuto prima del fallimento: questo è vivere bene, è amare le cose fino in fondo. Personalmente, questo chiarisce anche che tutto ciò che faccio non nasce o finisce con me, ma è più grande: non sono io a tenere insieme la mia vita, mi è data una vita più grande di quella che posso immaginare.

Settimana scorsa è venuto a mancare il papà di un mio amico, che avevo avuto l'occasione di conoscere un mese prima. Il giorno del funerale ero molto triste ed incupito: tutta la giornata era in funzione del funerale, che spezzava la giornata in due. In metro, andando verso la chiesa, mi è tornato alla mente il ricordo di quel direttivo: Tutto fallisce. Cosa rimane?
Arrivato in chiesa ho fatto fatica ad entrare per la quantità di gente che c'era, è stato impressionante. C'era un popolo vivo, che pregava e cantava:

  La festa sta per cominciare,
 corri e non fermarti amico mio.
  È la festa della fine del male
  sulla riva del mare di Dio.
(La festa sta per cominciare, Antonio Anastasio).

Pensando a come sono entrato in chiesa, l'ultima cosa che mi sarei aspettato uscendo da quel funerale era di essere lieto. Sono uscito dalla chiesa in grande pace, pronto a donarmi completamente in quello che faccio, senza la paura del fallimento, perché c'è qualcosa nella mia vita, che ho avuto la grazia di incontrare, che ha la prestesa dell'eterno. Questo vince su tutto: le mie paure, i miei tormenti, il dolore che provo per le mie questioni. Lo dice bene Don Anas, in Se tu sapessi, canzone a me carissima in questo momento:

  Se sapessi chi è con te, tu vorresti cominciare
  ad immergerti in quel mare che da senso alle tue ore

I giorni dopo, nello studio per due esami che ho dato giovedì, è stato bello dare tutto me stesso per capire fino in fondo, senza troppo avere la preoccupazione della scadenza. Che cosa grande poter studiare così, conoscere veramente! Perché c'è una ragione di fondo nelle cose, ed è per questo che è possibile studiarle, conoscerle.